Dermatite atopica: una malattia cronica che chiede riconoscimento e dignità
In Italia oltre 3 milioni di persone convivono con la dermatite atopica, una patologia infiammatoria cronica della pelle che impatta profondamente sulla qualità della vita ma non è ancora riconosciuta nei Livelli Essenziali di Assistenza
La dermatite atopica è una malattia infiammatoria cronica della pelle caratterizzata da prurito intenso, arrossamenti e lesioni cutanee visibili. Colpisce circa 3 milioni di italiani, bambini e adulti, con un impatto che va ben oltre i sintomi fisici: notti insonni, difficoltà lavorative e isolamento sociale sono conseguenze quotidiane per chi ne soffre.
Nonostante la sua diffusione e la gravità del disagio che provoca, la dermatite atopica non è ancora riconosciuta come malattia cronica nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Questo significa che i pazienti non hanno diritto a esenzioni, tutele o accesso omogeneo ai trattamenti innovativi disponibili, che restano spesso a carico delle famiglie.
Una richiesta di riconoscimento che arriva dalle istituzioni
Alla Camera dei Deputati, l’Associazione Nazionale Dermatite Atopica (ANDeA) ha portato la voce dei pazienti chiedendo l’inclusione della patologia nel Piano Nazionale delle Cronicità. Un passo che, come ha ricordato l’onorevole Ilenia Malavasi, promotrice di un intervento legislativo dedicato, “consentirebbe di garantire equità di accesso alle cure, universalità e presa in carico omogenea dei pazienti in tutto il territorio nazionale”.
Il costo economico e sociale della malattia è stimato in oltre 20 miliardi di euro, gran parte dei quali sostenuti direttamente dai cittadini. “È necessario che le istituzioni riconoscano la dermatite atopica come patologia cronica invalidante – ha ribadito Malavasi – per assicurare a chi ne soffre un reale diritto alla salute.”
Gli esperti: servono percorsi condivisi e accesso alle cure innovative
Sul piano clinico, il professor Antonio Costanzo, responsabile di Dermatologia all’Humanitas di Milano e vicepresidente SIDeMaST, ha sottolineato la necessità di “un approccio più uniforme e tempestivo sul territorio”. La dermatite atopica, ha spiegato, “implica un forte impatto sulla qualità della vita: il 50% dei pazienti con forme moderate o gravi dorme male per il prurito almeno cinque volte a settimana”.
Anche il professor Cataldo Patruno, presidente SIDAPA e docente all’Università del Molise, ha ricordato che la malattia può insorgere a qualsiasi età e richiede un lavoro di rete tra specialisti, con percorsi diagnostico-terapeutici condivisi e personalizzati, soprattutto nei casi più complessi.
La dottoressa Maria Mariano (ADOI) ha invece evidenziato il peso economico della patologia: “Ottimizzare diagnosi e trattamento significa ridurre recidive, complicanze e ricoveri, migliorando gli outcome clinici e abbattendo i costi sanitari”.
La voce dei pazienti: dignità, ascolto e inclusione
Il presidente di ANDeA, Marco Coccioli, ha annunciato la raccolta firme nazionale su andea.it per chiedere il riconoscimento ufficiale della dermatite atopica come malattia cronica e invalidante. “È una battaglia che portiamo avanti dal 2017 – ha dichiarato – per dare finalmente ai pazienti tutele reali e superare lo stigma che li accompagna nella vita sociale e lavorativa.”
A ricordare la dimensione più umana è Mario Picozza, consigliere ANDeA: “Parliamo di una malattia che non tocca solo la pelle, ma la scuola, il lavoro, le relazioni. Un approccio integrato medico, psicologico e sociale è l’unica strada per restituire serenità e produttività alle persone che convivono con questa condizione.”
Un impegno comune per una sanità più equa
La richiesta di inserimento della dermatite atopica nei LEA rappresenta un atto di giustizia sanitaria e sociale. Riconoscere questa malattia come cronica non significa solo garantire farmaci o visite, ma riconoscere il diritto alla dignità e alla qualità della vita di milioni di cittadini italiani.
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La salute della pelle è parte integrante del benessere generale: parlarne significa combattere stigma e disuguaglianze, e costruire una cultura della salute più empatica e inclusiva.
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