BIG DATA IN HEALTH: OGNUNO PER SÉ O TUTTI PER TUTTI?
SU PANDEMIA E DATI BIO-CLINICI CON CHIUSANO, GIGLIUTO, JAGHER, LOPALCO, QUATTROCIOCCHI, SCALA E VESPIGNANI.
OPEN DATA SI’, MA COME? COORDINAMENTO E STANDARD DI FORMATO LE PAROLE CHIAVE
Si è tenuto il primo webinar di Big Data in Health 2021, a cura di Big Data in Health Society con il coordinamento di IGOR Comunicazione; l’incontro digitale ha dato il via agli appuntamenti verso la IV edizione di Big Data in Health International Congress – in programma a fine ottobre 2021, e ha affrontato il tema “Infodemics & Epidemics”. Relatori, il presidente di BDHS Antonio Scala, Maria Luisa Chiusano del laboratorio di bio-informatica all’Università di Napoli Federico II, Veronica Jagher, Pierluigi Lopalco, Walter Quattrociocchi e Alessandro Vespignani, e Livio Gigliuto dell’Istituto Piepoli che li ha coordinati.
Al centro del webinar il tema spinoso delle modalità di condivisione dei dati bio-clinici e la loro destinazione d’uso, in carico e a disposizione non solo ad enti con fine pubblico, ad esempio gli ospedali e le aziende sanitarie locali, ma anche di organizzazioni private e di molte aziende che si occupano di salute.
In primo luogo, la progressione della quantità di dati a disposizione dovrebbe essere realmente compresa e utilizzata dalle istituzioni, ha avvertito Walter Quattrociocchi, professore associato al CDCS della Sapienza Università di Roma. “Stiamo vivendo in un sistema informativo nuovo, un condensato di fenomeni e attori che hanno completamente modificato la struttura attraverso la quale ci informiamo. In realtà, l’esperienza pandemica ha mostrato come non ci sia molta capacità di comunicazione tra i due mondi. In estrema sintesi: il ricercatore scientifico fa la ricerca, pubblica l’articolo su una rivista autorevole, ne semplifica i risultati in modo da comunicare al decisore politico il quale, alla fine, si trova costretto a rispondere che non sa bene cosa farci perché non ha capito fino in fondo la ricerca. Questo è il punto”.
Sempre nel corso del webinar, l’epidemiologo computazionale Alessandro Vespignani, in collegamento dalla Northeastern University di Boston, ci ha ricordato che “l’epidemiologia computazionale, come fosse un’agenzia d’intelligence, ha cercato di dare una serie di informazioni per trovare risposta alla pandemia. Quello che è mancato è stata un’infrastruttura simile a quella che abbiamo per i grandi centri di previsione meteorologica nazionali. Purtroppo, non c’è stato coordinamento e molte delle informazioni provenienti da questo lavoro d’intelligence sono state lasciate a gruppi di ricerca sparsi, a parte qualche esempio negli U.S.A. e in Europa. Dunque, quel che mi aspetto per il futuro è che vi sia un grande sforzo comune per rendere operativo tutto ciò che abbiamo imparato in questi lunghi mesi di pandemia ed essere più pronti per le prossime volte. Il che significa avere centri strutturati di risposta epidemiologica attraverso i dati che non siano lasciati sulle spalle dei gruppi accademici o all’insegna dell’emergenza. Su un altro versante, bisogna invece migliorare e proseguire sulla strada degli standard – ha continuato Vespignani – e del coordinamento sovranazionale, dove l’Oms ha da poco annunciato una piattaforma per un centro di Data Analytics. Altro aspetto ancora è capire quali passi in avanti sono stati fatti rispetto a dati inaccessibili per anni, come quelli trattati dalle grandi compagnie tecnologiche e che invece e per fortuna, durante la pandemia sono stati messi a disposizione in nome del “data for good”. Ecco, dobbiamo continuare questo percorso”.
Sia chiaro: nessuno mette in discussione la libertà imprenditoriale di produrre informazione riservata. O quella di raccogliere ed elaborare per proprio conto dati clinici e sanitari ai fini di ricerche (pubbliche o private). Libertà d’impresa, diritti d’impresa. Ovviamente, nel pieno rispetto del diritto alla proprietà dei propri dati personali da parte dei cittadini.
Del resto, è pratica comune che non solo le imprese ma anche le reti di professionisti intorno alla salute – ingegneri clinici, medici di medicina generale, medici specialisti, informatici, assicuratori, etc. – arricchiscano e gestiscano in autonomia i propri database, facendo uso di molteplici piattaforme informatiche e software che purtroppo spesso non permettono una interoperabilità tra dati e tra dati e dispositivi medici. Insomma, quasi una Babele. E’ però vero che, come ha sottolineato l’assessore alla sanità pugliese Pierluigi LoPalco intervenuto al webinar, “senza la sanità affidata a 21 Regioni, in Italia, la pandemia non si sarebbe potuta affrontare”. Ora però bisogna far parlare fra di loro i dati. Perchè con i dati “il totale è maggiore della somma delle parti”, per cui i benefici di unire più fonti sono probabilmente molto maggiori di quelli ottenuti presidiando le singole raccolte dati.
La pandemia da Sars-Cov-2 ci ha aiutato quindi a comprendere che le aspettative, gli obiettivi, le organizzazioni sanitarie pubbliche e private devono cambiare. E, tra i primi a reagire, va annoverata la governance dell’Unione Europea che, della condivisione dei dati, ne ha fatto una guida per il futuro ribadendo un concetto che già circolava da tempo prima della pandemia: open data.
La stessa Veronica Jagher, director healthcare industry solutions Microsoft, durante il suo intervento ha ribadito che effettivamente “i dati durante la pandemia non hanno funzionato bene, anche a causa della mancata adozione di standard di formato e di piattaforma finalizzati ad una interoperabilità in fase di raccolta dati, che consentisse decisioni rapide e “data driven”, ovvero “guidate dai dati”. Di fatto, siamo stati colti tutti impreparati e sarebbe ingiusto cercare imputati e colpevoli. Inoltre, c’è stata una difficile collaborazione tra governi e organizzazioni sanitarie a seguito della mancata definizione di quali dati fossero prioritari da raccogliere. La mancata omogeneità dei dati sanitari raccolti dalle singole organizzazioni ospedaliere e pubbliche ha poi reso quasi impossibile l’analisi”.
A sua volta, l’epidemiologo Pierluigi LoPalco ha descritto quanto è stato fatto nella sua regione. ”In Puglia, per fortuna, avevamo già un buon servizio di sorveglianza epidemiologica. Certamente l’abbiamo dovuto aggiornare e rendere compatibile per colmare i debiti informativi e per gestire i flussi d’informazione dell’emergenza pandemica che ci chiedevano a livello nazionale in modo peraltro, va detto, non uniforme. Perché un flusso va alla Protezione Civile e l’altro all’Istituto Superiore di Sanità. Quando gli stessi dati devono viaggiare su canali differenti, con modalità diverse, piattaforme e formato di dati diversi ma con l’aggiunta della rapidità di trasmissione e anche con l’ansia di fornire un dato unico, l’errore è dietro l’angolo. Dal punto di vista mediatico – ha proseguito Lopalco -, tutto ciò ha contribuito a dare l’idea che le Regioni non abbiano saputo governare i propri dati, che i dati fossero falsi o non trasparenti. Si è sentita la mancanza di un’infrastruttura nazionale che macinasse i dati della sorveglianza epidemiologica Regione per Regione, fornendo un coordinamento e uno standard efficace tale da far dimenticare la mancanza d’integrazione fra i vari sistemi”.
Il problema è quindi come evitare che la vecchia cultura competitiva, basata spesso su interessi locali e visioni ristrette del diritto imprenditoriale, rallenti questo processo di condivisione. Il rischio è che si arrivi ad invocare politiche transnazionali forti e precise, “calate dall’alto”, per imporre tale condivisione. In questo momento la condivisione è e deve rimanere un processo win-win, che porti ad espandere il mercato e ad arricchire le possibilità imprenditoriali: la scommessa sta nel trovare nuove forme di collaborazione che salvaguardino gli investimenti pregressi evitando politiche predatorie.
In materia di dati e di dati bio-clinici, è necessario mettere in campo per i prossimi anni un forte impegno culturale e formativo. Ma ancora di più, per ridurre l’impatto negativo di raccolte ed elaborazioni dati eterogenee e incomplete, va appunto realizzato l’effettivo coordinamento da parte delle istituzioni, nazionali e transnazionali.
“Si tratta, evidentemente, di un passaggio affatto semplice che inevitabilmente dovrà avere carattere legislativo e concordato” conclude Antonio Scala, presidente di Big Data in Health Society, la società scientifica promotrice del webinar. “Cosa che peraltro già ha mostrato la sua necessità nel momento in cui, per esempio, si è discusso di brevetti per i vaccini, a causa dei molteplici e ripetuti problemi di fornitura drammaticamente vissuti dai singoli governi dell’UE. Un passaggio che non può prescindere però dalla protezione e dal potenziamento di quello che è l’ecosistema che deve produrre questo cambiamento, ovvero le imprese – che senza profitto non hanno ragione di esistere – e gli istituti di ricerca – che al contrario vengono spesso resi miopi ed incapaci di creare innovazione da una gestione basata solo su indicatori aziendalistici e quantitativi”.